Le mani sul paesaggio
Viticoltori e paure immotivate per gli indirizzi del PIT regionale.
di Leonardo Rombai
Un fronte agguerrito di speculatori edilizi, industriali del marmo delle Apuane e imprenditori enologici, singoli e associati – purtroppo con il sostegno convinto o interessato di molti amministratori locali – da giorni sta manifestando, a mezzo stampa, la sua insofferenza e la sua contrarietà per qualsiasi nuova regola di governo del territorio che sia finalmente e responsabilmente dettata da criteri razionali di compatibilità con gli equilibri dell’ambiente e del paesaggio, del resto in totale coerenza con le normative europee, italiane e toscane.
Tale martellante e sconcertante levata di scudi contro il primo Piano di Indirizzo Territoriale della Regione Toscana con valenza di piano paesaggistico, approvato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e adottato dal Consiglio Regionale (ora nella fase della raccolta delle osservazioni), sta assumendo le dimensioni di una vera e propria crociata, che contrasta radicalmente con le richieste dei cittadini e delle associazioni che hanno a cuore la tutela e la valorizzazione sostenibile dei beni comuni a base paesistico-ambientale (secondo il dettato dell’art. 9 della Costituzione e di tante leggi vigenti, a partire dalla Convenzione Europea del Paesaggio).
Siamo di fronte ad una prepotente pretesa da parte di precise forze economiche di eliminare non solo qualsiasi prescrizione ma addirittura qualsiasi direttiva-indirizzo o anche suggerimento presente nel PIT, al fine di avere mani completamente libere di potere trasformare a piacimento il territorio rurale – vincolato o non vincolato che sia – da parte di palazzinari, scavatori e viticoltori-agricoltori: una pretesa del tutto inaccettabile per i cittadini e le associazioni sensibili per le sorti del nostro patrimonio già abbondantemente degradato. E’ facile immaginare, infatti, le conseguenze inevitabilmente negative che l’accoglimento da parte dell’amministrazione regionale di tale anacronistico indirizzo avrebbe sul suolo e sul territorio in termini di ulteriore consumo e di ulteriore aggravamento degli equilibri/squilibri idro-geologici: processi che, in Toscana e in Italia, hanno indiscutibilmente da tempo superato – rispetto agli altri Paesi europei – il livello di guardia, come dimostrano i dati sulla superficie urbanizzata, in forte crescita negli ultimi decenni, e gli eventi calamitosi di inondazioni e frane che si succedono con sempre maggiore frequenza e rovinosità.
Quanto alla sostanza del problema per i nuovi vigneti o i reimpianti viticoli (come per tutte le monocolture di rilevanti dimensioni), è arrivato il momento di fare chiarezza.
Le affermazioni apodittiche espresse da alcuni agricoltori singoli o associati circa la presenza, nel piano, di norme cogenti di significato negativo, sono del tutto infondate – e quindi false, e forse dettate da qualche oscuro disegno politico –, come può verificare chiunque attivando il sito internet della Regione Toscana dove sono visibili tutti i documenti del Piano.
Infatti, in nessuna parte del PIT si prescrive il divieto assoluto di creare nuovi vigneti. Basti qui ricordare l’art. 12 comma 2c della specifica “Disciplina per l’invariante strutturale I caratteri morfo-tipologicio dei paesaggi rurali”, che si limita a prevedere:
“…la realizzazione, negli interventi di riorganizzazione agricola, di una maglia dei coltivi anche più ampia di quella tradizionale e compatibile con la meccanizzazione agricola, purché ben strutturata sul piano morfologico e percettivo, ed efficacemente equipaggiata dal punto di vista ecologico e del contenimento dei fenomeni erosivi…”.
La lettura degli “Indirizzi per le politiche”, ovvero la parte in qualche modo regolamentare per i 20 ambiti in cui è stata suddivisa la Toscana, dimostra che in nessuna area della regione – neppure in quelle della viticoltura di grande pregio, come il Chianti (ambito 10) e le aree di Montalcino (ambito 17 Val d’Orcia e Val d’Asso) e di Montepulciano (ambito 15 Piana di Arezzo e Val di Chiana) – viene affermata l’assoluta impossibilità di realizzare impianti viticoli o di altre monocolture.
Invece, partendo dalla evidenziazione di oggettive criticità di ordine geo-morfologico e idraulico (processi di erosione e dilavamento dei versanti in atto, o comunque prevedibili, per la dominanza smodata delle lavorazioni a rittochino, cioè praticate secondo le massime pendenze), oltre che di ordine paesaggistico (semplificazione eccessiva della maglia agraria e impoverimento dei contenuti paesaggistici tradizionali), ci si limita ad esprimere termini come “indirizzi” e “incentivi”. E ciò, a favore della varietà e dell’alternanza delle coltivazioni, vigneti compresi, meglio se di dimensioni più piccole rispetto a quelli abnormi, di tipo californiano, fin qui realizzati, con cura maggiormente attenta della vegetazione arborea e arbustiva di coltivazione e di corredo e delle sistemazioni idraulico-agrarie, per diffondere quelle più efficaci (augurabilmente quelle a orientamento orizzontale od obliquo). Il fine è o dovrebbe essere a tutti evidente: quello di limitare “i fenomeni erosivi”: possibilmente “mediante l’interruzione delle pendenze più lunghe e la predisposizione di sistemazioni di versante”, come si legge per Montalcino e per altre aree.
A conclusione, viene da chiedersi se i viticoltori toscani conoscano i paesaggi viticoli della concorrenza italiana ed europea, con risposta obbligata negativa.
Gli indirizzi sopra enunciati del PIT – indirizzi, quindi assolutamente non divieti e non prescrizioni vincolanti! – sono razionali e del tutto condivisibili. Essi trovano conferma non solo nella tradizione sapiente dell’agricoltura toscana sette-otto-novecentesca – specialmente incentrata sugli agronomi imprenditori illuminati dell’Accademia dei Georgofili (a partire dai ben noti Agostino Testaferrata, Cosimo Ridolfi e Bettino Ricasoli) –, ma anche nell’esperienza tecnico-scientifica attuale, che per molti versi si richiama all’antico, di molte aree viticole di qualità dell’Italia settentrionale (Langhe e Monferrato, vallate alpine a partire dalla Val di Cembra, Friuli Venezia Giulia come ad esempio l’area di Cormons, ecc.) e dell’Europa centro-occidentale (ad esempio la regione renana svizzera-tedesca-francese e quella danubiana della Bassa Austria e dell’Ungheria).
Tutte queste aree ancora oggi presentano vigneti sistemati con una varietà di orientamenti e con sistemazioni efficaci in termini di difesa del suolo: ovviamente, non più solo i terrazzamenti stretti e ripidi della viticoltura eroica, ma anche quelli più larghi, appositamente raccordati tra di loro e di dimensioni tali da consentire il lavoro meccanizzato. Tali aree, per l’armonia, l’equilibrio e anche la varietà delle forme del loro bel paesaggio, si sono affermate specificamente anche come destinazioni turistiche di un crescente movimento nazionale e internazionale verde, proprio in virtù della stretta integrazione fra qualità dei prodotti e qualità del paesaggio, ciò che produce lavoro e benessere nel territorio, a partire dalle imprese agricole.
Al riguardo, basti ricordare le aree viticole di Lavaux in Svizzera e del Medio Reno tra Koblenz e Bingen in Germania, che da una decina d’anni sono state riconosciute come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Ebbene, sarebbe troppo fare capire che le indicazioni del PIT guardano proprio a tali esperienze e dovrebbero essere accolte come indirizzi progressivi nella direzione dello sviluppo sostenibile proprio delle aree rurali e dell’agricoltura della Regione, da attuare con lungimirante convincimento e senso di riconoscenza anche e in primo luogo dagli agricoltori toscani?
Leonardo Rombai
Professore Ordinario di Geografia nell’Università di Firenze
Presidente di Italia Nostra, Sezione di Firenze
Nota: quel testo era stato mandato dall’autore alla redazione fiorentina della Repubblica, che si è ben guardata dal pubblicarlo (Rete dei Comitati per la difesa del Territorio)