“La mafia qui si nasconde nei cantieri” Intervista a Pietro Grasso

Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia, ricorda che nella pausa di un interrogatorio chiese a un pentito quando sarebbe finita Cosa nostra. «Ero latitante – mi rispose – e venne a trovarmi un ragazzo di 28 anni: non aveva soldi per dare da mangiare alla figlia di 8 mesi. Lo mandai a lavorare da un costruttore che lavorava con soldi miei. Ora è il fiancheggiatore di un boss. Fino a quando quelli come lui verranno da noi e non da voi, la mafia non finirà».

Pietro Grasso racconta l’episodio nella hall dell’hotel Palazzo di Livorno, prima di avviarsi verso la sala del Lem dove, su invito dell’ex parlamentare Marida Bolognesi e di altri intellettuali dell’associazione “Ideali”, è stato invitato a parlare di legalità. «Gli avevo fatto la domanda per sfotticchiarlo un po’ – sorride Grasso -, mi rispose a modo loro, con una parabola. Ma riuscì a colpirmi».

Falcone disse che la mafia è un fenomeno umano: come è iniziata, finirà.
«La mafia è fatta di uomini, di beni, di organizzazioni, di denaro. E quindi bisogna individuare gli uomini, arrestarli, sequestrare i beni, disorganizzare la struttura e recidere i suoi rapporti con la parte grigia della società. Mi riferisco a quella borghesia mafiosa che dà la vera forza alle cosche, favorendone gli investimenti in attività solo in apparenza lecite ed esportando i capitali all’estero».

Parlare di mafia è già importante. Anzi, nel suo ultimo libro lei scrive che solo così s’inizia a non morirne.
«È vero, bisogna reagire, poiché il silenzio è l’ossigeno grazie al quale le organizzazioni criminali – simbiosi di mafia, economia e potere – si rafforzano. È una ricetta importante, loro hanno paura della parola».

Il mafioso, lei ha scritto, tende a risolvere i piccoli problemi della gente. Significa che quando il lavoro c’è e i servizi pubblici funzionano, alle cosche manca il terreno di coltura?
«La mafia non è solo un fenomeno criminale, ma anche economico e sociale: quando riesce a dare sussistenza a chi non ha da vivere, come nel caso che le ho descritto, finisce per inserirsi dove mancano lo Stato e la politica».

Della mafia sapete tutto o ci sono ancora zone d’ombra?
«Non ho mai la presunzione di sapere tutto, sono socratico… A parte la battuta, sappiamo cos’è e cosa rappresenta: favoritismo, compromesso, collusione, corruzione, violenza, intimidazione, ma anche complicità e contiguità. Insomma, è privazione della libertà e della democrazia. Questo è quanto i cittadini devono percepire per dire no alla mafia. Oggi è più facile di prima».

Fuori dubbio, anche se l’elemento-territorio ha un’importanza fondamentale. Dirlo in Toscana è più facile che altrove.
«Guardi, in un territorio come quello toscano, la mafia si dissimula. Dove fa affari tende a non farsi riconoscere. Qui c’è uno zoccolo duro di anticorpi onesti che rende più difficile l’infiltrazione. Ma non c’è dubbio, è autentico il tentativo di condizionare le imprese edili in zone tranquille impiegando i profitti illeciti. Lo dimostrano le indagini fatte a Cecina e Rosignano, imperniate sulla presenza di personaggi legati a una criminalità organizzata e non comune».

Vuol dire che nessuno può definirsi immune alla mafia, anche in assenza di grandi opere pubbliche che movimentano capitali ingenti?
«Il problema ha una portata nazionale, non è prerogativa del Sud. La mafia acquisisce profitti illeciti e poi viene a investire nelle zone tranquille più a nord, ricche e dove ci si nasconde meglio. È un pericolo che la parte buona della società deve tener sempre presente, poiché tutto questo produce un inquinamento dell’economia, impedisce il mercato e la libera concorrenza».

Non solo Cosa nostra, ma anche camorra, ’ndrangheta, sacra corona unita. E poi la mafia russa, quella cinese… Perché tutte qui?
«In Italia si arriva con facilità. Siamo un Paese tollerante con contraddizioni assurde: da un lato si vorrebbero buttare in mare i clandestini e dall’altro ci si fregano le mani perché stanno arrivando in tempo per la raccolta del pomodoro, per la vendemmia o per tutti quei lavori in cui si sottopaga e si sfruttano i bisogni dell’uomo.. È un’ambiguità da sciogliere. Credo che l’integrazione, e non lo sfruttamento, sia un valore di base della legalità».

Da giovedì c’è il nuovo codice antimafia. Gli strumenti che avete a disposizione sono sufficienti? E i magistrati bastano?
«Il nuovo codice non porta novità. Caso mai sono le precedenti leggi sulla sicurezza ad aver ampliato la possibilità di sequestrare e confiscare i beni della criminalità. Da parte mia, ho cercato di sensibilizzare su ciò che Falcone pensava fosse corretto, vale a dire utilizzare gli elementi scaturiti dalle indagini direttamente dai magistrati antimafia specializzati. Prima non era così, erano le procure ordinarie ad attuare le misure di prevenzione, di sicurezza, i sequestri e le confische. Voglio dire, certe cose le abbiamo fatte, altre restano in sospeso. Ad esempio, bisognerebbe evitare che i beni inseguiti in Italia fuggissero all’estero».

Dottor Grasso, lei vive blindato, al pari della sua famiglia. Se tornasse indietro farebbe le stesse cose?
«Le rifarei, non ho rimpianti né rimorsi. Le mie scelte derivano dall’idea di fare qualcosa di utile alla società. Forse l’ho fatto, anche se spesso non viene riconosciuto. La mia è una sorta di missione, che acquisisce valore quando penso ai colleghi che erano al mio fianco e che hanno sacrificato le loro vite, come Falcone e Borsellino».

Antonio Valentini – Il Tirreno (sezione Toscana) 15.10.2011

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