Criticità in Val di Cornia

Criticità in Val di Cornia

LE RICHIESTE DEL COMITATO PER CAMPIGLIA AI CANDIDATI AL GOVERNO DELLA TOSCANA


Il Comitato per Campiglia dal 2007 ha analizzato una serie di progetti di trasformazione del territorio, si è mosso per impedire quelle ritenute sbagliate e si è posto il fine di informare le persone con dati certi, mai contestati, di processi in atto in molti casi inaccettabili in quanto dannosi per la tutela del paesaggio, dell’ambiente e del patrimonio storico e culturale della Val di Cornia.

Il Comitato per Campiglia si riconosce nelle enunciazioni di principio contenute nel Piano del Paesaggio recentemente approvato dalla Regione là dove questo chiarisce che tutela del paesaggio non significa congelamento di una situazione in essere, perché paesaggio e ambiente sono sempre stati il frutto di modifiche da parte dell’uomo in tutte le epoche. Il paesaggio in cui viviamo e di cui parliamo non è mai un paesaggio naturale ma sempre antropizzato e, in quanto tale, suscettibile di modificazioni continue. L’importante è anche essere coscienti che un paesaggio è espressione di una stratificazione continua delle azioni dell’uomo sul territorio e quindi ogni paesaggio ha una specificità. Il Comitato per Campiglia ritiene che questa specificità vada conservata e nel caso della Toscana ancora maggiormente per la ricchezza di paesaggi urbani, delle periferie, del territorio aperto. Eliminare la specificità di un territorio significa distruggerlo, fare scomparire l’identità di un luogo e di chi lo vive ed eliminare anche le potenzialità di interesse da parte di un mondo più vasto che non cerca omologazioni ma identità.

Si tratta allora di gestire le trasformazioni impedendo che queste portino allo snaturamento del paesaggio per errori qualitativi o quantitativi.

Molti sono i casi studiati dal Comitato dove sono evidenti questi rischi e qui ne riportiamo una parte inquadrati in quattro temi principali e finalizzati a valutare se a livello regionale si può intervenire per correggerli ridimensionandoli o per evitarne il ripetersi.

1. LE CAVE

Cava-Monte-Valerio

(MONTE CALVI e MONTE VALERIO in Comune di Campiglia Marittima – SAN CARLO in Comune di San Vincenzo)

La zona del campigliese è fin dall’antichità caratterizzata dalla presenza di miniere e cave di marmi pregiati. Mentre queste sono state in gran parte dismesse e abbandonate e rappresentano un aspetto marginale anche se significativo dal punto di vista paesaggistico, l’attività di cava di inerti che negli anni ’70 ha sostituito la tradizionale attività mineraria, determina uno dei maggiori problemi per il territorio . La legge regionale 78/98, il Piano regionale delle attività estrattive del 2007, quello provinciale del 2014, i criteri di definizione dei contributi sul materiale scavato e la separazione della legislazione relativa al riutilizzo dei rifiuti riciclabili da quella relativa ai residui di cava, non risolvono minimamente il problema delle cave e creano anzi situazioni inaccettabili di rendite di posizione e di degrado del territorio.

La Cava di Monte Carlo nel Comune di San Vincenzo serve alla attività dello stabilimento SOLVAY fin dal suo impianto. Secondo il Piano Provinciale del 2014, al 2010 aveva ancora da scavare mc.10.194.700 di materiale entro il 2026, data di scadenza della concessione. La SOLVAY ha presentato una osservazione al Piano provinciale nella quale chiede di inserire nella tavola delle risorse e dei giacimenti del PAERP l’estensione di tutta la superficie di una ulteriore grande area. L’osservazione è stata respinta perché l’accoglimento avrebbe determinato una contraddizione con il Piano Regionale.

La cava di Monte Valerio nel Comune di Campiglia Marittima, di proprietà SALES era originariamente una importante miniera di stagno nel periodo fascista. Negli anni ’70 dopo infinite polemiche con il Comune di Campiglia, si trasforma in cava di inerti per l’edilizia. Secondo il Piano Provinciale del 2014, al 2010 aveva ancora da scavare mc.6.604.000 di materiale entro il 2020 data di scadenza della concessione. La SALES ha presentato una osservazione al Piano per ottenere che un’area in località Monte Spinosa, una in località Forni e un’altra in località Monte Calvi siano inserite nel Piano come risorsa e giacimento. L’osservazione è stata respinta perché l’accoglimento avrebbe determinato una contraddizione con il Piano Regionale.

Dopo la chiusura delle miniere, Monte Calvi nel Comune di Campiglia Marittima si limitava a fornire il calcare microcristallino necessario ai processi di fusione delle acciaierie di Piombino. La Cava originariamente di proprietà ILVA, passa nel 1991 alla Soc. Acciaierie e Ferriere di Piombino e successivamente alla LUCCHINI. Nel 2003 la cava, fino allora parte integrante delle acciaierie, viene scorporata dalla Lucchini e venduta ad un raggruppamento di imprese che comprende SALES, SIDERCALCE, Consorzio FEDERTRASPORTI e ASA (società pubblica che gestisce il servizio idrico del territorio). Con l’occasione entra come membro del CdA l’ex sindaco del Comune Lorenzo Banti in qualità di rappresentante dell’ASA. Successivamente la SALES cederà le sue azioni ad altro socio privato. Durante i vari passaggi di proprietà il Comune accetta nel 1994 che venissero commercializzati gli scarti di cava non utilizzati dalle acciaierie escludendo l’uso per opere edili, poi nel 1997 ammette la vendita del calcare e degli scarti per tutte le attività e infine nel 2006 il Sindaco ammette il quasi raddoppio del volume di scavo da mc.4.865.000 a mc. 8.500.000 senza neppure consultare il Consiglio Comunale.

Durante tutte queste operazioni il Comune concorda il pagamento dei contributi in anticipazioni fino ad arrivare alla totale anticipazione dei contributi presunti fino al 2018, data definitiva di scadenza della concessione Ad oggi, con la chiusura delle acciaierie, non viene più estratto il calcare microcristallino a fini industriali e Monte Calvi si è ridotta solo a cava di inerti. Secondo il Piano Provinciale del 2014, al 2010 aveva ancora da scavare mc. 4.857.000 di materiale entro il 2018 data di scadenza della concessione. La Società CAVE DI CAMPIGLIA ha presentato una osservazione al Piano per ottenere l’inserimento di una nuova area in Comune di San Vincenzo, di circa 55ha, nella Carta delle risorse e nella Carta dei giacimenti. L’osservazione è stata respinta perché l’accoglimento avrebbe determinato una contraddizione con il Piano Regionale.

Come si vede la spinta prevalente dei proprietari delle cave è quella di aumentare le aree scavabili e la quantità di materiale estratto. Questa posizione di lasciare completa libertà alle escavazioni di materiale per l’edilizia è per altro sostenuta vivamente sia dai partiti di maggioranza che da quelli di opposizione di centrodestra del Comune di Campiglia. In un recente Consiglio Comunale il PD ha ribadito l’assoluta necessità di scavare “perché il turismo non basta” (dimenticando oltretutto il peso occupazionale di una forte componente lavorativa nella agricoltura), ha auspicato di togliere date di scadenza alle concessioni e di permettere scavi sempre più estesi e infine ha auspicato il riconoscimento della zona come “distretto degli inerti” riprendendo la posizione e le affermazioni della Provincia che, a sua volta, ha auspicato la realizzazione di grandi opere (porti e Tirrenica) per permettere un utilizzo sempre più massiccio del materiale delle cave del campigliese.

Questa posizione nella migliore delle ipotesi, dimostra l’arretratezza culturale in materia degli amministratori locali. Infatti sembrano neppure sapere, o far finta di non sapere, che il riconoscimento dell’area come “distretto degli inerti” significherebbe che tutte le scelte dell’amministrazione dovrebbero essere finalizzate a favorire l’attività di cava per un mercato sempre più ampio a detrimento delle attività agricole di eccellenza e delle attività turistiche. Tutto questo viene giustificato con la necessità di mantenere e creare lavoro evitando di dire che gli occupati nel settore cave di inerti sono un numero ridotto rispetto ad altre attività (escluso i trasportatori che comunque continuerebbero a lavorare anche nel caso di uso di materiali riciclati, gli addetti alle cave sembrano essere circa 130 lavoratori l’ occupazione dei quali sarebbe comunque garantita anche potenziando gli impianti di riciclo).

Inoltre gli Amministratori sembrano non sapere che l’indirizzo da anni adottato in Europa è quello di utilizzare per l’edilizia materiali riciclati : per attuare questo scopo si è aumentato il contributo di concessione delle cave, alzato il costo di conferimento in discarica di materiale da demolizioni e costruzioni indifferenziato, realizzato impianti di riciclo basati su tecniche avanzate, incentivata la demolizione differenziata riducendo al massimo il costo di conferimento in discarica, incentivata l’architettura sostenibile. Questa politica ha permesso di portare l’utilizzo di materiali riciclati al 60% del fabbisogno in Francia e in Gran Bretagna, dove il canone in cava raggiunge il 20% del prezzo medio di mercato degli inerti, contro il teorico 3% che si verifica in Toscana e che in realtà si attesta sull’1,5% se visto sulla media dei prezzi di mercato dei materiali. L’uso ambientalmente virtuoso dei materiali riciclati ha portato anche ad un aumento di occupazione; infatti se per cavare mc.100.000 di materiale in cava occorrono in media nove addetti, per riciclare lo stesso volume di materiali di recupero ne occorrono dodici.

Se si considera poi che l’indirizzo della Comunità europea è quello di arrivare nel 2020 ad utilizzare nell’edilizia il 70% di materiali riciclati, quando oggi alcuni sono al 60%, mentre la Toscana è al 12%, ci rendiamo conto che gli amministratori sono rimasti al medioevo o che il peso politico delle lobbies degli inerti è veramente potente.

Questa situazione si è determinata grazie ad una legge regionale (la 78/98) piena di buone intenzioni (moderazione nell’uso dei materiali naturali, ripristino delle cave abbandonate, riutilizzo degli scarti di cava, equilibrio tra attività di cava e altre attività, rispetto del paesaggio, ecc.) che sono rimaste chiacchere mancando gli strumenti economici per attuarle. Infatti i contributi di concessione sono stati misteriosamente definiti in €/mc.0,49 (contro i massimi €/mc. 4,10 ammessi) con il solo scopo di sistemare le strade, fare controlli in cava del materiale estratto e del rispetto del piano di coltivazione approvato, coprire i costi burocratici delle procedure, e quindi senza mai destinare i fondi a realizzare le buone intenzioni di cui sopra.

Ad una legge carente e ad una definizione dei contributi ridicola, si affiancano un Piano Regionale del 2007 ormai scaduto e fuori dal tempo nelle previsioni basate su dati del 2004 per la nota crisi del 2008 e seguenti, un Piano Provinciale di Livorno del 2014 che riprende il Piano Regionale senza modificarne sostanzialmente gli errori di previsione e quindi configurandosi scientificamente scorretto, inutile e spesso dannosissimo nelle affermazioni di principio. Se questo non bastasse fanno la loro parte i Comuni concedendo anticipazioni di scavo, varianti e sanatorie che rendono il Piano approvato totalmente distorto e rendono di fatto non rispettati i piani di rinaturalizzazione realizzando così dei mostri ambientali quali sono oggi le cave del Campigliese così impattanti che dalla Corsica risultano essere la prima immagine che si percepisce di questo tratto di costa.

Cosa può essere fatto per invertire questo spreco del territorio? Il problema nasce a livello nazionale in quanto, mancando una legge di indirizzo, anche nella quantificazione e destinazione dei contributi, si creano delle distanze abissali tra regione e regione, visto che in alcune si può addirittura scavare del tutto gratuitamente. Inoltre i Piani provinciali in attuazione di quelli regionali in alcune Regioni non sono mai stati redatti (e per altro anche nella “civile” Toscana la metà delle Provincie non hanno redatto i Piani per le attività estrattive).

A livello regionale deve essere portata in fondo una nuova legge che però superi tutte le omissioni della Legge 78/98 e della proposta di variante già redatta ma ancora da portare in Consiglio. Deve cioé prevedere controlli seri sull’attuazione dei Piani di Coltivazione, non ammettere modifiche che ritardino le fasi di rinaturalizzazioni previste pena la decadenza della concessione, non ammettere proroghe alle scadenze per scavare il materiale ammesso ma non scavato, indicare oltre a un massimo anche un minimo del contributo, da quantificare in almeno €/mc.2,00 lasciando alle amministrazioni la possibilità di contrattare cifre oltre il minimo, ma obbligandoli a rispettare il principio di rendiconti annuali ed impedendo anticipazioni. Inoltre una nuova legge regionale deve prevedere delle destinazioni più ampie dei contributi finalizzandoli anche al sostegno di attività che quella di cava può danneggiare e deve prevedere un ampliamento della partecipazione dei cittadini alla approvazione di Piani che devono essere considerati alla stregua di qualunque Piano Attuativo che modifica il territorio.

Infine è indispensabile mettere a punto una legge sui rifiuti riciclabili che ricomprenda anche i residui di cava e che possa ridurre la distanza con altre nazioni europee sull’uso di materiali riciclati, favorendo i conferimenti già selezionati in discariche e rendendo sempre più conveniente utilizzare questi rispetto ai materiali vergini.

2. I PARCHI

 Parco-San-Silvestro

(IL PARCO DI RIMIGLIANO E SOCIETA’ PARCHI VAL DI CORNIA)

Un elemento caratterizzante e pressoché unico in Toscana è il sistema dei Parchi della Val di Cornia. La sua specificità è che non si tratta di parchi regionali o statali, ma di proprietà esclusivamente comunale. Attualmente la Società Parchi della Val di Cornia (della quale sono soci i Comuni di Piombino, di Campiglia Marittima, di San Vincenzo, di Suvereto, di Sassetta, la Provincia di Livorno, la Camera di Commercio di Livorno e Baia Etrusca snc) gestisce il Parco costiero di Rimigliano, il Parco costiero della Sterpaia, il Parco Archeologico di Baratti e Populonia, il Parco archeominerario di San Silvestro, il museo archeologico del territorio di Populonia, il Museo archeologico del territorio di Piombino e Populonia, l’area servizi del parco di Montioni,

Dopo un periodo in cui la Società aveva quasi raggiunto il pareggio di bilancio grazie ai proventi dei parcheggi, delle locazioni ecc., nel 2012 la situazione cambia completamente grazie al Comune di Piombino che, per risanare il suo bilancio, decide di scippare alla Parchi oltre € 1.000.000 dei proventi dei parcheggi di Baratti e Sterpaia. La motivazione di impossibilità formale di gestione di parcheggi da parte della Parchi per le sue caratteristiche societarie, viene presto dimenticata quando le viene riconferita la gestione dei parcheggi salvo l’incasso degli utili che continua a essere introitato dal Comune di Piombino.

Di fronte a questo colpo di mano del Comune più popoloso della Val di Cornia, gli altri Comuni hanno accettato supinamente di contribuire con i loro bilanci alle perdite della Società Parchi. Stesso discorso vale per la Tassa di Soggiorno che fu istituita per potere rinforzare il ruolo della Parchi senza che questo sia avvenuto.

Il risultato è che il Parco di Rimigliano ha visto negli anni ridursi il livello di manutenzione, ed oggi risulta degradato nella pulizia, nella cura della sentieristica, della flora e della tanto vantata (ma pressoché inesistente) accessibilità per portatori di handicap.

Questa situazione dà l’idea di quanto gli amministratori siano poco sensibili alla eccezionalità di una struttura come l’insieme di Parchi, musei e monumenti affidato alla Società e che rappresenta uno degli elementi di richiamo del turismo italiano e straniero più colto e in grado di permettere un allungamento della stagione turistica più di quanto non faccia il solo turismo balneare. Invece di potenziare questi aspetti, investendoci sempre di più visto che 1 euro investito è in grado di generarne tantissimi in più, i Comuni, quello di Piombino in prima linea, sembrano considerare i parchi come “cosa loro” da sfruttare a piacimento per risolvere problemi particolari, e magari, perché no, vendere quando la Società arriverà a termine (2050).

Proprio perché la situazione è degradata, molti hanno auspicato che i Parchi della Val di Cornia diventino un Parco Regionale, ma così facendo si perderebbe l’unicità di alcune collettività (I comuni) che hanno acquistato grandi e emergenti parti del territorio ed hanno deciso di salvaguardarli e gestirli collettivamente.

Sarebbe allora più utile che attraverso norme regionali si premiassero i comuni che portano avanti queste esperienze e solo quelli che lo fanno correttamente, penalizzando quelli che non intendono attivare processi di governo del territorio a livello di collaborazione tra più comuni.

Vorremmo anche sapere che fine hanno fatto gli € 700.000 destinati alla riduzione dei fenomeni erosivi a Rimigliano e affidati dalla Regione alla Provincia di Livorno. Il progetto è stato redatto (e pagato) con molti punti oscuri sulla opportunità e sulle soluzioni scelte mai chiariti ai cittadini. Al progetto sono seguiti articoli e polemiche, salvo scomparire tutto nel dimenticatoio. A parte I dubbi sulle soluzioni adottate il progetto della provincia sull’arenile, avrebbe dovuto essere seguito da un progetto della Parchi per la sistemazione degli accessi al mare, salvaguardia delle dune, consolidamento dei servizi, ecc. Nulla si è più saputo e poiché gli € 700.000 stanziati erano soldi dei cittadini, vorremmo chiarezza sulla loro fine.

Lo stato di abbandono del Parco di Rimigliano e il silenzio in merito della Parchi e del Comune di San Vincenzo continua a preoccupare molti che temono un tentativo di privatizzazione della spiaggia a favore di nuovi insediamenti di lusso a Rimigliano, così come la Fattoria di Poggio all’Agnello tentò di fare con il beneplacito del Comune di Piombino a Baratti nella spiaggia accanto al Ristorante Canessa. La cosa non andò a buon fine grazie al lavoro dei comitati, ma per Rimigliano il rischio è sempre presente..

Anche in questo caso una applicazione a maglie strette del Piano Paesaggistico potrà tutelare un bene comune a patto che l’attenzione sul territorio non venga a mancare e vengano creati gli Osservatori previsti per legge (L.R. 65/2014) e svincolati da amministratori, politici e imprenditori.

 

3. LE STRUTTURE TURISTICHE E RESIDENZIALI SULLA COSTA

 Paradu

(TENUTA DI RIMIGLIANO in Comune di San Vincenzo – VILLAGGIO PARADU’ in Comune di Castagneto Carducci)

I casi della Tenuta di Rimigliano nel Comune di San Vincenzo e del Villaggio Turistico Paradù di Donoratico sono emblematici della debolezza delle amministrazioni di fronte a forti pressioni da parte di imprenditori quando vengono promessi grandi investimenti e creazione di numerosi posti di lavoro. I due casi sono anche emblematici della incapacità di una visione politica a lungo termine: si preferisce il tutto e subito a costo di distruggere le unicità di luoghi per i quali la ricchezza del paesaggio è un patrimonio da tutelare e trasformare con attenzione per non rischiare di disperdere le potenzialità anche economiche insite nella eccellenza dei luoghi.

Nel caso della Tenuta di Rimigliano il Comune di San Vincenzo accolse entusiasticamente a suo tempo la proposta dell’allora potentissimo Calisto Tanzi (PARMALAT), di trasformare la Tenuta di Rimigliano in una grandissima struttura ricettiva realizzando ex novo un albergo di mq.15.000 e trasformando tutti gli edifici rurali esistenti (mq.12.500 circa) in Residenza Turistica Alberghiera. Il progetto, malgrado rappresentasse la fine di una delle tre più importanti e antiche tenute agricole della Val di Cornia, fu accolto con giubilo e fu confezionato ad hoc una variante urbanistica che deruralizzò automaticamente tutti i manufatti esistenti nelle sette unità poderali esistenti.

Con il fallimento della PARMALAT tramontano i sogni di gloria e gli imprenditori che acquistano la proprietà all’sta fallimentare convinceranno l’amministrazione a ridurre l’albergo da mq. 15.000 a mq.6.000 e a realizzare abitazioni private dai fabbricati esistenti senza neppure preoccuparsi di regolarizzare, come permette la legge nel caso di acquisti da fallimento, la presenza dei manufatti la cui legittimità era dubbia o non provabile. A questo punto inizia una ridda di numeri riportati nel Piano Pluriennale di Miglioramento Agricolo Ambientale redatto dalla proprietà da cui risulta che le superfici esistenti nelle unità poderali non sono più i mq. 12.500 circa del progetto Tanzi ma diventano mq.16.979 (comprendenti mq.650 destinati al centro aziendale) grazie a interpretazioni di un regolamento edilizio indecoroso (che tra l’altro ha portato alla manomissione di gran parte degli edifici più vecchi e caratterizzanti del centro di San Vincenzo). Questi dati vengono assunti tout-court dall’Amministrazione che redige una varante ad hoc al Regolamento Urbanistico a spese dei cittadini. Il controllo dei numeri e dei conti fatto da opposizioni e comitati mette in evidenza che in realtà la superficie utilizzabile, anche applicando un Regolamento Edilizio indecoroso, erano solo di mq.14.000 circa A questo punto il Comune cambia le carte in tavola dichiarando che se è vero che i mq. nelle unità poderali erano mq. 14.000 circa e non mq.17.000 circ, esistono però fuori dalle unità poderali e quindi non già deruralizzati, mq.2.500 circa di manufatti, costituiti in gran parte da strutture in legno, filo di ferro, rete metallica, plastica, ecc. mai dichiarati nel PPMAA (approvato dal Comune, anche se difforme dalla Variante al R.U. redatta dal Comune stesso), e che con un nuovo PPMAA avrebbero potuto comunque essere portati da destinazione rurale a edilizia residenziale. Anche in questa fase, come nelle precedenti, il Comune non si è mai preoccupato di verificare se i manufatti erano tutti legittimi o presenti prima del 1967 (entrata in vigore della “legge ponte”) o abusivi. In una situazione di totale sbando normativo, il Comune decide di accettare per probante la testimonianza giurata di due persone che sostengono la presenza di quasi tutti i manufatti ante 1967. Il Comune non solo non ha ripubblicata la Variante (sostanziale) al R.U permettendo ai cittadini di fare ulteriori osservazioni, ma non controllerà neppure quanto dichiarato e modificherà l’art. 5 del suo R.E. in modo da rendere valido il documento presentato dalla proprietà ai fini della dimostrazione di legittimità.

Oggi la proprietà sta chiedendo di annullare la previsione alberghiera dichiarandola economicamente insostenibile visto che non può disporre di spiaggia privata e propone di realizzare al posto di mq. 6.000 di albergo di lusso (con 40 posti di lavoro) mq. 3.000 di abitazioni private. In questo modo sarà eliminata definitivamente l’unitarietà proprietaria che almeno il progetto Tanzi continuava a garantire attraverso una struttura ricettiva, che in qualche modo poteva avere ancora le caratteristiche di una struttura di utilizzo pubblico e che avrebbe creato posti di lavoro (anche se in gran parte stagionali). Il progetto attuale vanifica completamente la promesse di un gran numero di nuovi posti di lavoro dimostrando così quanto erano fasulle le promesse della attuale proprietà che oltretutto non ci risulta abbia ancora attivato le previsioni del PPMAA che avrebbe dovuto a loro volta creare nuova occupazione anche nell’agricoltura.

La superficialità dimostrata dal Comune nel portare avanti tutta la operazione ha determinato non solo un grave danno al paesaggio e al sistema economico locale, ma ha causato una serie di polemiche e ricorsi che hanno ritardato una scelta risolutiva, creando così un grave disagio ai lavoratori dell’edilizia che si sono sentiti illusi nelle loro aspettative generate da promesse prive di un solido fondamento. Quindi in definitiva è da valutare come l’amministrazione abbia determinato una applicazione delle norme che non dà pari certezza del diritto a tutti i cittadini, abbia determinato un danno erariale concedendo in pratica dei condoni edilizi a costo zero, abbia favorito una situazione di ricatto occupazionale e abbia irrimediabilmente determinato un danno al patrimonio paesaggistico e culturale per favorire una speculazione edilizia che oltre tutto sembra essere ormai fuori dai processi turistici e insediativi e dall’ attuale domanda di mercato.

Il caso del Villaggio Turistico Paradù è più recente ma anch’esso è imperniato su una tendenza delle Amministrazioni locali e non solo, ad interpretare la normativa vigente con grande capacità ginnico contorsionista, incantati dall’idea di creare nuovi posti lavoro in qualunque modo e di aumentare quindi il consenso. In questo caso ci troviamo di fronte ad un vecchio Club Mediterranée nato nel 1966 ormai inattivo da dieci anni (2003) con strutture fatiscenti e 654 tucul in paglia e legno semidiroccati dei quali 378 abusivamente realizzati in dispregio al Nulla Osta della Soprintendenza del 1966.

L’amministrazione, invece di cogliere l’occasione per far spostare il villaggio turistico e, rispettando la legge Galasso, liberare la fascia dunale e di pineta da strutture turistico-ricettive come è stato fatto per esempio nel Comune di San Vincenzo per il campeggio Albatros, decide di mantenere la previsione in loco di una struttura ricettiva in base al progetto presentato da uno dei tanti immobiliaristi. Il progetto manteneva la privatizzazione dell’area e prevedeva di realizzare una struttura con volumetria pari all’esistente e tale da ammettere la presenza comunque di 750 ospiti contro i 1.300 circa del vecchio Club Med.

Come al solito l’Amministrazione, sempre sulla spinta del motto “creiamo posti di lavoro” (sempre quasi tutti stagionali, ma meglio che nulla), approva la proposta inserendola nel Regolamento Urbanistico, ma malauguratamente il compratore si accorge che gran parte delle volumetrie riutilizzabili erano illegittime e quindi rescinde il contratto. A questo punto appare sulla scena un altro gruppo che acquista il bene così com’è, demolisce le parti abusive e propone all’amministrazione, che accetta, come strumento di intervento la realizzazione di opere che la legge consente ai proprietari di un bene per mantenerne la funzionalità, quando non intendono realizzare le previsioni dello strumento urbanistico vigente.

Si procede quindi con ventinove pratiche per ristrutturare i manufatti in muratura esistenti e si procede a realizzare case mobili, grazie ad interpretazioni suffragate da pareri dell’Assessorato Regionale al Turismo e della Federcampeggi sulla possibilità di installare case mobili e temporanee nei campeggi. A parte il delirio interpretativo basato su leggi i cui termini sono vaghi e indefiniti e quindi ingannevoli (la norma si guarda bene dal definire cosa si intende per mobile, per temporaneo, per materiali non edili, ecc.), l’Amministrazione si dimentica di verificare che tutte le piazzole fossero fin dall’impianto originario (1967) dotate di attacchi di luce, acqua e fogne e quindi si potessero installare manufatti dotati di luce, cucine e sanitari senza che si configurasse una consistenza diversa da quella che la legge si limita a garantire (un villaggio di capanne in legno e paglia senza luce ed acqua non è la stessa cosa di un insieme di casette con bagni e cucine ). Prende per buona la dichiarazione della proprietà che dice di avere trovato già in essere tutte le reti (per la realizzazione delle quali avrebbe dovuto essere ottenuto i Nulla Osta per la presenza di vincoli paesaggistici e forestali).

La cosa va avanti anche grazie ad una Soprintendenza che nel 2013 dà addirittura il nulla-osta per l’installazione di 173 casette a scopo di campionatura quando nel 1966 la Soprintendenza aveva valutato che su 654 piazzole si poteva al massimo installare 276 semplici capanne in legno e paglia per non correre il rischio di danno al paesaggio.

A questo punto, mentre sui siti esteri si garantiva la prossima presenza di ben 654 case prenotabili, le proteste di comitati, ambientalisti e opposizioni portano la Magistratura a procedere al sequestro del cantiere, poi revocato in parte, alla sospensione del parere della Soprintendenza da parte della Soprintendenza stessa e a un nuovo progetto in cui pare che il numero delle casette sarà dimezzato con la previsione di un massimo 750 ospiti.

Evidentemente tutto questo ha determinato il comprensibile malcontento di chi contava sul lavoro che gli era stato promesso.

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una Amministrazione disposta a non volere verificare fino in fondo la liceità della presenza di manufatti (la rete delle forniture e fognature) pur esistendo un progetto che dichiarava cosa effettivamente esisteva nel 2003: si dimostra disposta ad interpretazioni azzardate delle norme che portano inevitabilmente a situazioni di rischio, di ricatto occupazionale e di danno alla collettività. Anche in questo caso l’Amministrazione ha perso l’occasione di riportare ad uso pubblico una parte della pineta e delle dune e di non creare un probabile danno erariale rappresentato dal mancato incasso di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria che gli sarebbe dovuti nel caso di una presentazione e approvazione di variante al R.U.. Inoltre i cittadini sono stati privati del diritto di dire la loro proprio perché non si è utilizzato una strumento urbanistico e si è preferito affidarsi furbescamente e grossolanamente a norme transitorie.

Queste due esperienze insegnano che l’ autonomia a livello locale ha senso quando le Amministrazioni si mettono in grado di valutare le proposte di trasformazione con strumenti culturali e normativi che molto spesso mancano e che se anche ci sono vengono stravolti da scelte politiche miopi e altrettanto incapaci di ostacolare una imprenditoria che continua a sapere solo rapinare il territorio per un beneficio immediato ma privo di capacità di determinare uno sviluppo duraturo e di livello alto di un territorio di altissimo pregio. Di fronte a questa situazione locale, è indispensabile a livello regionale mettere a punto un sistema di controlli che evitino queste operazioni.

Oggi teoricamente con il Piano Paesaggistico è dato in mano alle amministrazioni uno strumento che dovrebbe ridurre i casi macroscopici di cattivo governo del territorio anche se gli sfregi apportati al piano dai partiti di centrodestra e da parte dello stesso Partito Democratico rischiano di lasciare aperti troppi varchi agli imprenditori d’assalto e alle Amministrazioni cialtrone.

Le due vicende dimostrano anche la necessità di rendere veramente operante il Piano Paesaggistico attivando gli Osservatori previsti dalla Legge svincolandoli dagli uffici comunali o da personaggi di partito. Inoltre occorre di mettere a punto strumenti che garantiscano una parità di diritti dei cittadini di tutta la Regione e che riducano al massimo i processi degenerativi di legittimità rappresentati da interpretazioni spesso contraddittorie . In questa ottica è importante mettere a punto un testo unico di Regolamento Edilizio che, grazie ad una formulazione chiara e incontrovertibile nei contenuti e nei termini utilizzati, eviti le interpretazioni da azzeccagarbugli o discriminatorie che alcuni Comuni poco virtuosi amano elaborare.

 

4. L’AGRICOLTURA

 carciofi

Il Comitato per Campiglia non si è mai specificatamente interessato dei problemi dell’Agricoltura se non per quanto si rifletteva sulla tutela del paesaggio, dell’ambiente e del patrimonio culturale della Val di Cornia. E’ interessante però notare come si dia sempre grande spazio alle cave e al turismo e ci si limiti a parlare in sottotono della agricoltura che di fatto è un fonte di lavoro primaria ed ha il ruolo fondamentale di produrre alimenti. Inoltre l’agricoltura se ben gestita rappresenta il primo strumento di tutela e conservazione del territorio.

Benché la Val di Cornia produca verdure e ortaggi di prima qualità pochi sembrano interessati a far riconoscere a questi prodotti marchi di qualità e di tutela che permettano di ottenere ricavi più significativi e quindi radicamento alla terra .

Tante sono le esperienze più o meno misconosciute di coltivazioni pilota e sperimentali nel campo dei cereali , degli ortaggi, dei frutteti, ma sembra che il territorio agricolo sia visto dalle stesse amministrazioni solo come bacino di possibili utilizzazioni edilizie (vedi Rimigliano, vedi Le Lavoriere, vedi la RTA di Campiglia, ecc. ecc.) magari in parallelo con il procedere della salinizzazione delle falde che è sempre utilizzata come giustificazione di abbandono della agricoltura.

Se analizziamo i bilanci dei Comuni vediamo che per aiuti all’agricoltura vengono stanziati spiccioli, salvo costruire Norme di Attuazione e Regolamenti che nella loro inutile complicatezza rappresentano un vero peso, anche economico, per gli agricoltori.

A livello Regionale sarà allora importante impostare le normative nel settore agricolo che semplifichino le procedure amministrative e il carico burocratico, che considerino gli agricoltori tutori del suolo, e come tali da aiutare economicamente, che facilitino il ritorno all’agricoltura, che impediscano l’abbandono dei terreni e ne facilitino il recupero con investimenti nel campo delle irrigazioni, nella scelta e promozione delle coltivazioni più idonee alle caratteristiche dei terreni e nella promozione di marchi di qualità. Se si considera che L’EXPO di Milano ha come tema conduttore il cibo nel mondo, viene da piangere vedendo il disinteresse mostrato da Amministratori e categorie nei confronti dell’agricoltura in Val di Cornia.

Campiglia Marittima 11 Aprile 2015

Comitato per Campiglia
Arch. Alberto Primi

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